Secondo un’indagine del Sole24Ore, più di due imprenditori su tre considerano creatività/innovazione e responsabilità come valori fondanti della cultura d’impresa.
Anche se i motivi per cui bisogna innovare sono chiari a tutti (e hanno a che fare con temi strategici come la globalizzazione, il restare competitivi, il crescere, l’aggiungere valore al prodotto) questa centralità dell’innovazione nella visione degli imprenditori è un fatto confortante. Così come è confortante la diffusione dell’idea che l’impresa moderna abbia un forte ruolo di motore sociale, non solo strettamente economico, e conseguentemente debba sviluppare un atteggiamento di responsabilità nei riguardi del contesto in cui opera.
La medesima ricerca, però, segnala un fatto che a prima vista può apparire secondario, e che invece può avere conseguenze pragmatiche consistenti: creatività e innovazione, nell’indagine e con ogni probabilità nella percezione degli intervistati, vanno in coppia. Come se fossero due facce della stessa medaglia o forse, addirittura, due sinonimi.
Che per innovare, cioè per sviluppare un’idea nuova traducendola in un processo o in un prodotto innovativo, sia necessario prima avercela, l’idea, è così ovvio da apparire scontato. Il dato che, forse, non viene considerato a sufficienza, è questo: non tutte le idee nuove sono valide o appropriate. Perché un’idea possa essere considerata nuova, basta che rompa una regola -qualsiasi regola- esistente. Anche la pizza al lucido da scarpe è un’idea nuova.
LE DIFFERENZE TRA CREATIVITÀ E INNOVAZIONE
Perché un’idea possa essere considerata creativa, dev’essere tale non solo da rompere una regola esistente, ma da originare una regola nuova, e migliore. La creatività… crea, appunto, regole nuove. E che funzionano. E’ un lavoraccio pieno di incognite.
Non è solo la parte preliminare dell’innovazione. E’ una faccenda a sé stante.
D’altra parte, creatività e innovazione sono non solo due momenti rilevanti, differenti e successivi uno all’altro all’interno del processo di sviluppo, ma appartengono a diversi livelli logici.
L’innovazione è un fenomeno economico e sociale. Coinvolge la collettività. Chiede investimenti, infrastrutture, politiche dedicate. E il coraggio di rischiare. Ha una fortissima componente progettuale, può essere pianificata ed è frutto di una specifica strategia imprenditoriale.
La creatività è un fatto mentale e individuale. Riguarda i singoli, o gruppi di singoli che cooperano. Chiede flessibilità, competenze, talento, focalizzazione. E una tenacia fuori dal comune. E’ per molti versi incontrollabile e dipende anche dal caso. La si può favorire ma non pianificare.
Per cultura, esperienza, formazione un bravo imprenditore può facilmente capire le logiche dell’innovazione, e governarle pianificando tempi e investimenti. Quelle della creatività sono per alcuni aspetti incontrollabili, e questo può essere molto irritante. Senza contare che i gruppi creativi possono essere davvero complicati da gestire e orientare, finalizzandone le attività senza che si perda in originalità di pensiero.
Si tende, dunque, a rimuovere il problema, facendo rientrare in modo piuttosto arbitrario lo sviluppo della creatività all’interno dei processi, ugualmente complessi ma più gestibili, che riguardano l’innovazione. E a pensare che, da una parte, anche per sviluppare la creatività bastino politiche dedicate, investimenti, infrastrutture, detassazione o finanziamenti pubblici. Che, dall’altra, anche il processo creativo possa essere
rigorosamente pianificato e tempificato. E, infine, che gli addetti vadano considerati, sia per quanto riguarda l’incentivazione che per quanto concerne il controllo, alla stregua di qualsiasi altro dipendente.
COMFORT E SFIDA
Non è esattamente così, e ce ne possiamo rendere conto osservando le imprese che considerano la creatività come l’autentica leva strategica per lo sviluppo. Queste imprese, dall’italiana Diesel all’americana Google, sembrano avere in comune alcune caratteristiche peculiari: un ambiente informale, piacevole, accudente ma altamente sfidante per i singoli, sistemi d’incentivazione non basati sul puro incremento retributivo, tempo e ascolto a disposizione di chi ha una buona idea. In imprese così la creatività diventa innovazione non solo perché l’innovazione è ritenuta cruciale, ma anche, e in primo luogo, perché l’ambiente è favorevole allo sviluppo della creatività.
Le persone creative non hanno bisogno di essere spinte a lavorare. Di solito, anzi, tendono a lavorare troppo e ad essere perfezioniste, quasi al di là di ogni ragionevolezza. Apprezzano il fatto di avere rispetto, reputazione e opportunità, e di appartenere a un’organizzazione che a sua volta ha una reputazione eccellente, molto più del puro incentivo economico. Non devono sentirsi costrette entro schemi di pensiero e procedure troppo rigide (e nemmeno entro orari ministeriali: biblioteche e laboratori che chiudono alle sei di sera o sono irraggiungibili nei weekend non aiutano la creatività) ma hanno bisogno che siano chiari gli obiettivi e gli standard di qualità. Hanno spesso un’alta sensibilità sociale, e si possono sentire gratificate dal fatto di sapere che il loro lavoro e la loro dedizione possono in qualche modo, e qualsiasi sia il campo d applicazione, contribuire a cambiare il mondo, migliorandolo.
PREMIARE IL MERITO E CONTINUARE A FARLO
Un altro fatto che tende a sfuggire è questo:?la creatività non è qualcosa di dato, che già esiste, e va solo (solo?) reperito e trasformato in innovazione grazie a un adeguato processo industriale: come se fosse una materia prima. Oro, ferro, petrolio.
La scarsa percezione di questa differenza sostanziale nasce probabilmente da una serie di fraintendimenti.
Il primo fraintendimento riguarda gli individui: “gli individui sono come sono”. Basta prendere quelli che hanno idee, i più bravi, e metterli al lavoro. Sembra semplice.
Ma gli individui non sono come sono.
Sono, invece, come sono diventati andando con maggiore o minor profitto in scuole più o meno buone e frequentando ambienti più o meno stimolanti e fertili. Se una società non “produce” individui creativi educandoli grazie a un sistema scolastico capace di premiare il merito e di riconoscere l’eccellenza, le sue imprese difficilmente riusciranno a competere producendo innovazione.
In definitiva, la possibilità di contare su un gran numero di talenti creativi, dai quali nel medio-lungo periodo dipende anche la capacità di innovare, è intrinsecamente connessa con un alto livello di alfabetizzazione, con un’istruzione diffusa, con la presenza di numerosi centri di eccellenza. E, bisogna proprio dirlo, con un alto livello di occupazione femminile qualificata.
Il secondo fraintendimento è di ordine metodologico: se pensiamo allo sviluppo come a un processo che si svolge nel tempo, vediamo che idee nuove generano processi innovativi, e che processi innovativi (tali, per esempio, da rendere disponibili nuove tecnologie o nuovi materiali) favoriscono il nascere di ulteriori idee nuove. Questo è uno dei molti fatti che, secondo la definizione di Gregory Bateson, si presentano in termini di coevoluzione: il fenomeno A favorisce il verificarsi del fenomeno B, che a sua volta amplifica la possibilità che il fenomeno A si ripeta. Insomma, può sembrare che, una volta avviata – cosa peraltro non facile – l’innovazione sia miracolosamente capace di generare se stessa.
Purtroppo non è del tutto vero.
Il dato che può sfuggire è questo: tutto si fonda sul fatto che nel sistema vengano continuamente immessi nuovi individui capaci di generare nuove idee. Nuovi individui, insomma, ancora più preparati, più acuti, più ricchi di talento, capaci di produrre idee ancora migliori, all’interno di un sistema la cui complessità cresce in modo difficile perfino da immaginare.
Produrre individui che abbiano preparazione e talento è il vero punto critico. Gli investimenti sono a lungo o lunghissimo termine. E gran parte delle variabili coinvolte sfugge alla sfera d’influenza diretta delle imprese. Non è un buon motivo per non occuparsi del tema, però.
Come ricorda Benedetto Vertecchi, un ingegnere, un medico, un manager che esce oggi dall’università ha di fronte almeno trentacinque anni di lavoro. Molto prima di andare in pensione, scoprirà che buona parte di quanto ha studiato a scuola è superato. Se non possiede gli strumenti necessari per continuare ad aggiornarsi non solo non potrà contribuire al processo innovativo, ma probabilmente finirà, anche se in modo non volontario, per ostacolarlo. Un’indagine del 2006 compiuta da Provincia di Milano evidenzia proprio il fatto che spesso gli imprenditori trovano i maggiori ostacoli all’innovazione nella mentalità conservativa diffusa tra i dipendenti delle loro stesse imprese.
Oggi, nel confronto con i paesi Ocse fatto attraverso i test PISA, che verifica le competenze degli studenti quindicenni, la nostra scuola esce mediamente male: sempre agli ultimi posti, sia che si tratti si scienze, di matematica o di capacità di leggere e comprendere testi.
Il fatto che alcuni studenti e alcuni istituti siano davvero eccellenti è paradossalmente poco incoraggiante: ci dice che, depurata delle eccellenze, la stragrande maggioranza ha performance meno che modeste.
Sarebbe importante che le imprese chiedessero non solo strategie e politiche per l’innovazione, ma anche programmi, strutture, investimenti tali da favorire un’educazione di base diffusa, e di qualità. E poi l’educazione specialistica, la formazione permanente, e la crescita di quel talento speciale che ci vuole per imparare a imparare.
Non basta ancora: dal punto di vista del processo creativo – e questo è un ulteriore dato che gli imprenditori tendono a ignorare – i processi che generano l’idea di un nuovo prodotto, di un nuovo farmaco, di un nuovo servizio, di un nuovo romanzo o di una nuova canzone sono molto simili.
Nascono nella testa di una persona o di un gruppo di persone, per una quantità di cause e un insieme di condizioni, alcune delle quali sono così aleatorie che è difficile inserirle dentro un piano di sviluppo industriale. Nascono in modi a volte inaspettati. Magari in un garage. Magari in seguito a un fatto fortuito.
Nascono, le idee nuove e fertili, e accendono una meravigliosa sequenza di interrelazioni, ugualmente fertili. Che la creatività sia diffusa nel contesto sociale, e che nuove opere d’arte, nuovi romanzi, nuovi film di qualità vengano prodotti e mettano in circolo nuove e vigorose visioni del mondo è un fatto che interessa molto, e non così stranamente quanto sembra, anche gli imprenditori.
Un’idea che funziona -in qualsiasi ambito, compreso quello delle arti- è un seme che ha la capacità di germogliare e che, germogliando, crea un ambiente adatto alla diffusione di altri semi, che a loro volta germoglieranno. Certo, ci vogliono poi terra buona e trattori: cioè investimenti, laboratori, infrastrutture. Ma, senza una quantità di buoni semi, messi in terra nel modo giusto, non si raccoglie niente. E, alla fin fine, non si produce niente di buono.